Bisogna evitare di gridare "Al lupo!" quando è fuori caso.
In realtà i dirigenti di Google sono stati assolti dall'accusa di diffamazione, come spiegano i legali della società.
La condanna riguarda invece la violazione delle norme sulla privacy.
Se il reato è quello indicato nell’art. 167 della legge sulla privacy, Google risulta colpevole per le seguenti ragioni:
- ha operato a fini di lucro
- ha effettuato trattamento di dati personali (creando un indice per la ricerca)
- ha causato nocumento.
Intanto va distinto il trattamento dei dati da quello dei metadati: l'indice viene costruito sui metadati, es. titolo, tag, data e altro.
Poi quello di punire il fine di lucro è un principio puritano, incoerente in una società moderna.
È perfettamente legittimo operare a fini di lucro anche attraverso la rete.
Il servizio di indicizzazione e ricerca poi è fornito gratuitamente e va a beneficio degli utilizzatori del servizio.
Andrà quindi corretta la legge sulla privacy, eliminando la clausola sul fine di lucro e precisando che dal trattamento dei dati vanno esclusi il trattamento dei meta-dati e altre elaborazioni che non espongono i dati stessi, per esempio le elaborazioni statistiche.
1 comment:
Sono state pubblicate le motivazioni della sentenza.
Le motiviazioni fanno finalmente chiarezza su una sentenza che è stata giudicata da molti erroneamente come un attacco alla libertà di espressione.
Invece si tratta molto più semplicemente di applicazione dell'art. 167 della legge sulla privacy, come spiegato sopra.
Più precisamente il giudice afferma che:
"attraverso AdWords e il riconoscimento di parole chiave aveva la possibilità di collegare, le informazioni riguardanti i clienti paganti alle schermate di Google Video e quindi, gestire, indicizzare, organizzare i dati contenuti in questo sito"
e questo configura, insieme con gli introiti pubblicitari che ne conseguono, la prima delle condizioni indicate nell'articolo:
avvenuto trattamento dei dati sensibili a fini di lucro.
Le altre due condizioni sono abbastanza ovvie.
Nonostante il consenso non spettasse a Google di acquisirlo, il giudice contesta il fatto che nelle condizioni di uso del servizio non è chiarito agli utneti che lo devono fare.
Si riportano indicazioni sul consenso al trattamento dati di chi usa il servizio, ma non di chi è ripreso nei filmati.
Il giudice controbatte con chiarezza a tutti quelli che hanno blaterato a vanvera sul fatto che la sentenza avrebbe costituito un obbligo di analisi preventiva di tutti i materiali caricati dagli utenti.
Dice espressamente che "ad impossibilia nemo tenetur" e che Google "non ha un obbligo generale e specifico di controllo su tutti i dati sensibili caricati".
Mi aspetto comunque di sentire nei prossimi giorni molti commenti che riprenderanno il tormentone dell'"attacco principi stessi su cui si basa Internet", come hanno già detto i portavoce di Google.
In realtà, il problema è nella legge sula privacy, che andrebbe cambiata nel senso indicato nel post.
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