Tuesday, February 19, 2013

economisti scesi in politica (e di livello)

Angelo Raffaele Meo, parafrasando una celebre frase di Clemenceauu, è solito dire che
L'economia è una cosa troppo seria per lasciarla fare agli economisti.
Infatti nel corso di questi ultimi decenni, la gran parte degli economisti nostrani, da quelli supposti, come Tremonti, a quelli veri, come Monti, scesi in politica hanno dimostrato di essere incapaci di predire anche i fenomeni più scontati e ci hanno trascinato nella peggiore crisi economica degli ultimi cento anni.

Sulla scia dei falllimenti dei loro colleghi adesso scende (sale?) in politica una nuova generazione di economisti, che includono Zingales, Boldrin, Giannino, Fassina, Tinagli.
Fare peggio dei loro predecessori sembrerebbe impossibile, ma ancora prima delle elezioni, tutti hanno dimostrato enormi limiti.
Irene Tinagli ha mostrato di non conoscere la differenza tra reddito e patrimonio.
Oscar Giannino ha mentito sul suo curriculum di economista.
Luigi Zingales dopo aver tenuto bordone a Giannino si è frettolosamente dissociato, ma le sue ricette super liberiste non convincono assolutmente.
Michele Boldrin sbraita anche lui contro Loretta Napoleoni, rea di aver suggerito una ricetta economica di stampo social-democratico, che è l'unica che ha senso in Europa per uscire da una crisi di queste proporzioni, come fece Roosvelt seguendo le indicazioni di Keynes nel 1929, senza portare intere nazioni al collasso, come sta avvenendo alla Grecia, nel totale silenzio e disinteresse dell'Europa.
Fassina è inqualificabile, con ricette che vengono lanciate un giorno e smentite il successivo dal segretario del suo partito, e poi spara affermazioni infondate, come quella che l'Italia è l'unico paese in cui il lavoro a tempo determinato costa meno di quello fisso.

Purtroppo la vanità della popolarità effimera che dà presentarsi a delle elezioni sta giocando brutti scherzi a tutti.

Anziché lasciarsi abbindolare dalle ricette neoliberiste che si sono rivelate fallimentari in questi decenni, si dovrebbero ascoltare economisti di altra statura, come i premi Nobel Krugman o Stigliz, che dicono cose ben più sensate.

Sarebbe quindi meglio che gli economisti se ne stiano fuori dalla politica e offrano le loro analisi a qualcuno che sia in grado di discernere cum granu salis, ma soprattutto abbia una visione di una strategia economica di medio/lungo termine.
Anziché affidarsi a una lotta per bande tra scuole economiche accademiche, in cui ciascuno ha il solo obiettivo di dimostrare che il suo punto di vista è superiore, dovremmo decidere prima che tipo di sviluppo economico vogliamo e poi trovare le ricette che ci portano verso quello.

Per esempio, invece di lasciare al mercato e alle banche di decidere i nostri destini, vorremmo che le banche servissero i nostri interessi e i mercati servissero per garantire equa concorrenza tra le imprese.
In settori strategici, dove le imprese e il mercato non funzionano, bisogna realizzare gestioni di bene comune, affidandoli a organizzazioni civiche sotto il controllo diretto dei cittadini (non della politica, che ha prodotto il malaffare di questi anni).
Certe innovazioni, come il salario di cittadinanza, sono realizzabili e proposte persino da politici non di matrice progressista, perché conviene, anche in termini economici, ridurre le disparità e stimolare i consumi, mentre la cassa integrazione è solo uno spreco di denaro, nell'illusione che un lavoro che non c`è più un giorno ritorni.

E invece di rincorrere progetti faraonici, puntare al micro-credito di Yunus (altro Nobel, ma per la pace, perché gli economisti non l'hanno voluto riconoscere tra loro) per rilanciare migliaia di iniziative dal basso.

Per uscire dal mesozoico, bisogna prima liberarsi dei dinosauri dell'economia, che usano i loro modelli economico/statistici del passato e non sono in grado di anticipare i cambiamenti.

Krugman lo dice proprio oggi sul New York Times (giuro che non lo avevo letto prima di scrivere questo post).

PS.
Ho dato un'occhiata al nuovo libro di Krugman, End this depression now, e mi sono stupito che arrivi alle stesse mie conclusioni, che non sono un economista né tanto meno un Nobel:
One main theme of this book has been that in a deeply depressed economy, in which the interest rates that the monetary authorities can control are near zero, we need more, not less, government spending. A burst of federal spending is what ended the Great Depression, and we desperately need something similar today.
E poi procede:
But how do we know that more government spending would actually promote growth and employment? After all, many politicians fiercely reject taht idea, insisting that the government can't create jobs; some economists are willing to say the same thing.
Prima di rispondere, Krugman riprende un altro argomento che è uno di miei pallini fissi: la mancanza di nesso tra correlazione e causalità.
You might think that the way to assess the effects of government spending on the economy is simply to look at te correlation between spending levels and other thinkgs, like growth and employment. The truth is that even people who should know better sometimes fall into the trap of equating correlation with causation.
As you surely know, it's an article of faith on the American right that low taxes are the key to economic success. But suppose we look at the relationship between taxes an employment over the past dozen years. What we see is this.
...
So years with hight tax shares were years of low unemployment, and viceversa. Clearly, the way to reduce unemployment is to raise taxes! 
OK, even those of us who very much disagree with tax-cut mania don't believe this. Why not? Because we're surely looking at spurious correlation here. For example, unemployment was relatively low in 2007 because the economy was still being buoyed by the housing boom - and the combination of a strong economy and large capital gains boosted federal revenues, making taxes look high. Measured tax levels were a consequence of other things, not an independent variable driving the economy.
Similar problems bedevil any attempt to use historical correlation to assess the effects of government spending. If economics were a laboratory science, we could solve the problem by performing controlled experiments. But it isn't. Econometrics - a specialized branch of statistics that's supposed to help deal with such situations - offers a variety of techniques for "identifying" actual causal relatioships. The truth, howver, is taht even economists are rarely persuaded by fancy econometric analyses, especially when the issue at hand is so politically charged. What, then, can be done?

As I said, since the crisis began there has been a boom in research into the effects of fiscal policy on output and unemployment.

This clearly suggests that increasing government spending does indeed create growth and hence jobs.

1 comment:

Enrico Nardelli said...

Purtroppo molti degli economisti italiani che si espongono all'opinione pubblica con ricette e proposte farebbero meglio a dedicarsi ad altro.

Segnalo invece a chi non lo conosce gia' un economista che seguo da diversi mesi ed e' rigoroso e comprensibile, vuol fare l'economista e non il politico, ma fa capire molto bene l'intreccio tra decisioni politiche e conseguenze economiche:

http://goofynomics.blogspot.it

E sulle responsabilita' etiche e sociali dei professori di economia e delle societa' finanziarie suggerisco la lettura di Antifragile: things that gain from disorder di Nassim Taleb, capitoli 23 e 24.